MENO BUROCRAZIA, PIU’ SPAZIO AI PRIVATI
A due anni esatti dall’approvazione del Jobs act – scrive Giampiero Falasca, su Il Sole 24 Ore del 18 settembre 2017, a pagina 3 – l’assegno di ricollocazione resta ancora l’oggetto misterioso della riforma delle politiche attive. L’idea – mutuata da alcune esperienze regionali di successo – è molto valida: si da a chi resta senza lavoro una somma di denaro per acquistare, presso fornitori accreditati, servizi che possono aiutare a ricollocarsi. E l’operatore può incassare la somma solo se viene raggiunto un risultato utile ai fini occupazionali.
Quindi il sistema, se ben costruito, ha molti punti di forza: mette in concorrenza gli operatori, che competono per convincere le persone a spendere l’assegno presso di loro, e rende più selettiva ed efficiente la spesa pubblica (i soldi sono spesi solo per risultati concreti).
Tuttavia, la robusta platea che avrebbe dovuto trovare un aiuto nell’assegno di ricollocazione non è stata interessata dalla misura.
Al momento è partita – in ritardo una sperimentazione limitata a poche migliaia di persone, con risultati che faticano a vedere la luce.
Questo impone una riflessione sui correttivi per rilanciare l’assegno, che resta indispensabile per modernizzare le nostre politiche attive.
Innanzitutto si possono valorizzare le buone prassi che già funzionano. Se il sistema della dote unica applicato in Lombardia produce risultati efficienti, trasferiamo con umiltà e coraggio nell’assegno di ricollocazione i principi che caratterizzano e rendono forte quel modello, come la completa parificazione e concorrenza tra pubblico e privato. Parificazione che passa attraverso la cancellazione di tutti i passaggi burocratici che non aiutano la ricollocazione ma servono ad affermare il ruolo di controllo delle strutture pubbliche. Inoltre, va anticipato l’accesso all’assegno, oggi riservato solo alle persone già disoccupate da molti mesi, quando ormai la possibilità di ricollocazione si è ridotta. Infine, serve trasparenza: inutile annunciare uno strumento universale, ma poi limitarsi a sperimentazioni per platee ristrette di disoccupati. Se non ci sono risorse per tutti, meglio ripensare l’assegno come misura destinata solo ad accompagnare situazioni specifiche.
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