Una sedia apparentemente vuota. Articolo a cura della Dr.ssa Maria Teresa Volponi, discente del Master Anticorruzione, IV Edizione, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

Nella categoria Articoli Master Anticorruzione da su 16 marzo 2020 0 Commenti

Come sempre, ma questa volta di più, la settimana del master diventa un viaggio dove scopri scenari sconosciuti e inciampi in incontri inaspettati.

Succede che frequentando il decimo modulo del MAC IV, relativo ai rapporti tra corruzione ed altre devianze patologiche, ti soffermi a cogliere i tratti distintivi di questo elemento: la devianza.

Lo avevi incontrato qualche decennio prima, in un libro studiato per strappare un voto all’esame di chissà quale corso di studio e comunque rimasto un concetto teorico di cui non ricordi molto.  

Per ricordarlo cerchi banalmente sul solito motore di ricerca che recita “per devianza si intende comunemente ogni atto o comportamento di una persona o un gruppo di persone che viola le norme di una comunità e che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione ed è un atto che può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socio – culturale in cui ha luogo”.

Insegui nella mente esempi di devianza e ti interroghi se anche tu sei stata, sei o sarai una deviante. Un bell’interrogativo.

Il pensiero diventa davvero complesso!

Scopri anche che al primo posto nella classificazione della devianza si posizionano i crimini e i delitti (omicidi, furti, crimini dei colletti bianchi, bande) e che la devianza a volte coincide con la criminalità.

Mi sembra più facile identificare la criminalità.

La criminalità viola la legge.

Ne abbiamo parlato  più volte,  lungo  il percorso di questo cammino.

Poi succede che un giorno entra in scena un uomo a parlare alla classe, ma non è un insegnante qualunque che ci mette la faccia in quello che dice o il nome in quello che scrive. E’ un uomo che ci rischia la vita.

Una vita passata a contrastare la criminalità organizzata. Le MAFIE! Quella siciliana, quella calabrese e le loro ramificazioni economiche, ma anche la mafia presente nella Capitale.

Ci racconta della bontà di alcune misure messe in campo per dare scacco matto alla mafia,  alla ‘ndrangheta, alla camorra ed in particolare:

-il regime 41-bis, il cosiddetto carcere duro, nato per ostacolare le comunicazioni dei detenuti con l’esterno, per impedire ai boss eventuali contatti con le organizzazioni criminali operanti sul territorio e la possibilità di impartire ordini anche durante la detenzione;

-la normativa in materia di collaboratori di giustizia che simboleggia il vulnus del prestigio dell’organizzazione;

i sequestri e le confische dei beni. Per un mafioso sopportare un periodo limitato di carcere significa aggiungere una “mostrina”, ma la perdita dei beni è un fatto traumatico che incide sul prestigio. L’esibizione della ricchezza e della potenza economica è potere mafioso.

Il giorno dopo, un’altra tappa, un’altra lezione.

Guardando quella sedia vuota non sembrava tanto vuota. E’ come se nell’aria vibrasse ancora la forza di una narrazione, di una presenza che era entrata in sintonia con la nostra anima per non lasciarla più. E’ un sentimento comune.

La potenza della testimonianza del Procuratore andava al di là del contenuto del racconto,  stava nell’aver reso tangibile un mondo reale, conosciuto ai più solo attraverso le notizie di cronaca, dalla lettura di qualche romanzo, dalla visione di film.

Allora, in quel momento, con un tono di voce che si usa quando uno prega, ho sentito il bisogno, a nome di tutti, di ringraziare tutti gli uomini e le donne che rischiano, addirittura la vita, per tutti noi e anche per me, a servizio di un Paese e di cittadini che ne ignorano l’esistenza.  

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