LA SPENDING REVIEW CONTINUA A SURFARE TRA LE ONDE.

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In effetti, da alcuni anni, meglio da alcuni lustri, appare e scompare, come chi fa surf.

Termine evocativo, eclatante, ineludibile in un programma elettorale, panacea per tutti i mali – economici – del Paese, vive oggi un momento di parziale offuscamento, perché dopo anni di “ristrutturazione dei costi”, meglio, soprattutto di “tagli lineari” che hanno finito con il penalizzare i più virtuosi nell’amministrare le risorse pubbliche, diventa sempre più difficile ipotizzare un qualche risultato di questo procedere.

 

Ci si riduce, così – come racconta Marco Rogari, su Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2019, alle pagine 1 e 5 –  ad una mini spending review: a fronte di 860 miliardi di uscite correnti il Governo ipotizza entro il 2022 una mini riduzione di 8, mentre la spesa corrente  è prevista in crescita di somme estremamente  superiori (795 miliardi nel 2018, 812 nel 2019, 832 nel 2020, 848 nel 2021 e 864 nel 2022).

 

Un’operazione – il Programma nazionale di riforma (Pnr), parte integrante del Def, prevede il  recupero di 2 miliardi già nel 2020 e di 3 l’anno nel biennio seguente – che secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) non appare facile da realizzare, tenuto conto che appare a rischio anche il conseguimento del “misero” miliardo di euro di risparmi previsto per quest’anno perché “… le amministrazioni hanno raramente proposto interventi correttivi …”, come si legge neldossier del Servizio studi della Camera.

 

La storia della “revisione della spesa” e’ antica, ma “prende velocità” nel 2007 con il Ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa (è la cd. Commissione per la Finanza Pubblica presieduta da Gilberto Muraro, che nel giugno del 2008 consegna un rapporto con 90 “raccomandazioni”, per ridisegnare il bilancio dello Stato in 34 missioni e 168 programmi di spesa), prosegue con il DL 78/2010 del Ministro Tremonti, che la richiama, mentre inizia la sequela di Ministri e Commissari “dedicati”: Piero Giarda,  Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli, Yoram Gutgeld, Roberto Perotti,fino ad oggi con la recente nomina dei due viceministri dell’Economia, Laura Castelli e Massimo Garavaglia.

 

Prima di loro, fu Beniamino Andreatta il pioniere della spesa intelligente, colui che tentò per primo – come si può leggere nell’articolo di Dino Pesole, su Il Sole 24 Ore del 25 aprile 2019, alle pagine 1 e 3 – di ricorrere al criterio che assegnava le risorse secondo priorità.

Un pioniere, un precursore della spending review, cui toccò, in questo caso, la stessa sorte delle “prediche inutili” di Giulio Einaudi.

L’idea – per avviare un serio percorso di revisione strutturale della spesa pubblica, come racconta il presidente del Centro studi Economia Reale, Mario Baldassarri (che in quegli anni collaborò attivamente con Andreatta) nell’introduzione al volume “Quaranta anni di spending review”  – era quella di passare da una sorta di rivoluzione culturale, con l’adozione nel nostro Paese del principio utilizzato dal Congressional budget office americano, cioè il budget a base zero: superare il principio “inerziale” e “incrementale” del Bilancio impostato sui tendenziali di spesa, per adottare al contrario il criterio del sostanziale “azzeramento” ogni anno di tutte le voci di spesa e della loro riallocazione a seconda delle priorità disposte in sede politica. In sostanza, una spending review ante litteram, perché rivedere i criteri di funzionamento della spesa nell’intero perimetro pubblico vuoi dire riallocare le risorse, intervenire sui meccanismi che sovraintendono alle decisioni di spesa, in una parola “riqualificare” la spesa.

 

 

 

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