La discrezionalità amministrativa: il male o la cura?

Nella categoria Azione Amministrativa e Prevenzione, Italia da su 9 gennaio 2018 0 Commenti

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di Eleonora Pileggi

Il nuovo Codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 50/2016) attribuisce un ruolo centrale all’Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito Anac o Autorità), determinando un decisivo potenziamento dello strumento regolatorio, tramite l’attribuzione all’Anac del potere di emanare atti a carattere generale, attuativi delle disposizioni primarie.
L’articolo 213 del Codice prevede, infatti, che l’Autorità ha il compito di sviluppare e integrare il precetto primario mediante atti di regolazione e di adottare linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile, comunque denominati, al fine di garantire la promozione dell’efficienza e della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, tendere alla omogeneità dei comportamenti e allo sviluppo delle migliori pratiche.
Nel nuovo impianto si è inteso superare il sistema tradizionale, che affidava la disciplina della contrattualistica pubblica a livello primario al codice dei contratti e a livello secondario ad un regolamento governativo di attuazione, preferendo un sistema diversificato voluto dalle direttive europee, incentrato sulla regolazione flessibile, al fine di adeguare rapidamente la normativa alle evoluzioni che connotano il settore degli appalti pubblici.
La critica che è stata mossa a tale sistema di attuazione e implementazione del Codice è che l’obiettivo della semplificazione, di una regolamentazione sintetica e unitaria, possa perdersi nella moltiplicazione degli atti attuativi e che le linee guida possano complicare l’attuazione delle leggi, introducendo fattori di incertezza in ordine alla loro effettiva cogenza, generando un contenzioso dagli esiti incerti e complicando la conoscibilità del quadro regolatorio. In breve, che possa tradire lo spirito delle direttive europee e della ambiziosa riforma che ne è scaturita.
La legge delega ed il Codice che ne è scaturito perseguono, infatti, l’obiettivo della qualità della regolazione anche in chiave sostanziale, tramite il divieto di gold plating, ossia il divieto di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dai criteri direttivi, in applicazione dell’art. 1 co. 1 lett. d) della legge delega (la quale richiede una drastica riduzione e razionalizzazione del complesso delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti e un più elevato livello di certezza del diritto e di semplificazione dei procedimenti).
Tale obiettivo di riduzione degli oneri e adempimenti non necessari deve essere assicurato anche in sede di adozione degli atti attuativi, (come stabilisce l’articolo 213, comma secondo, del Codice), che, come chiarito dal Consiglio di Stato, devono rispondere ai canoni di chiarezza, coerenza e semplificazione.
A tal fine il Consiglio di Stato ha raccomandato all’Autorità di evitare la proliferazione di linee guida, con fenomeni di regulatory inflation, che contrasterebbero con i criteri direttivi della legge delega e che possono essere evitati raccogliendo in modo sistematico le indicazioni modificative, integrative o correttive che seguiranno nel periodo successivo alla prima fase di applicazione del Codice, allo scopo di evitare il rischio di proliferazione delle fonti che si volevano ridurre e di perdita di sistematicità ed organicità dell’ordinamento di settore, violando in sede attuativa il vincolo a una “drastica riduzione” dello stock normativo imposto dall’articolo 1 comma 1 lett. d) della delega.
Un altro problema che si è posto con riferimento a questo sistema attuativo riguarda i limiti posti alla discrezionalità della pubblica amministrazione e il pericolo di imbrigliarla eccessivamente, a scapito dell’efficienza. Tale fenomeno non solo contrasta con lo spirito della normativa europea, che si muove, invece, nella direzione di ampliare la discrezionalità amministrativa, ma è fonte di ulteriori distorsioni ed inefficienze.
Nel nostro ordinamento, nel recepimento della normativa europea, c’è sempre stata la tendenza a limitare fortemente la discrezionalità delle stazioni appaltanti, per vari motivi, giuridici e metagiuridici, in particolare la sfiducia nei confronti dell’amministrazione e la preoccupazione che la discrezionalità possa degenerare in arbitrio.
Così, mediante una regolamentazione molto puntuale, si è limitato l’uso del potere discrezionale, soprattutto a fini di prevenzione dei fenomeni di corruzione o di infiltrazioni criminali, particolarmente rilevanti nel nostro paese, optando per l’introduzione di automatismi e procedure rigide. Proprio la rigidità delle procedure ha causato per molto tempo un massiccio ricorso a regimi derogatori, che hanno finito per creare nuove occasioni di corruzione.
Questa tendenza traspare anche nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici, che, in qualche misura, si muove in direzione contraria rispetto a quella delineata dalle direttive europee in materia di contrattualistica pubblica.
Infatti, le direttive attribuiscono maggiore flessibilità alle stazioni appaltanti, incentivano l’adozione di procedure discrezionali, censurano gli automatismi, sono volte in primo luogo al perseguimento dell’efficienza, della semplificazione, della trasparenza e della riduzione degli oneri burocratici. Tuttavia, la legge delega, dopo aver posto i principi della semplificazione, della flessibilità, del recepimento dei livelli minimi di regolazione, ha operato alcune deroghe al divieto di gold plating, introducendo alcuni principi direttivi improntati a maggior rigore rispetto a quelli richiesti dalle direttive.
Secondo il Consiglio di Stato, si tratta di una scelta politica del Parlamento, che coniuga flessibilità e rigore e che sul piano tecnico non si espone ad alcun rilievo: il maggior rigore nel recepimento delle direttive deve ritenersi giustificato dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali.
Se è vero, che considerazioni di ordine storico, giuridico e sociale portano a ritenere “giustificato” un recepimento più oneroso del minimo comunitario ed una regolamentazione più severa (come nel caso della disciplina del subappalto di cui all’art. 105 o del rating di impresa prima del correttivo al Codice, o ancora, la disciplina dell’esclusione automatica per le offerte anormalmente basse), è anche vero che altro tipo di considerazioni, di ordine economico, potrebbero spingere nella direzione opposta.
Perché ridurre la discrezionalità previene la corruzione, ma impedisce ulteriori azioni vantaggiose non corrotte, frena la competitività e la crescita economica del Paese.
Il problema è quello di ingessare le pubbliche amministrazioni, a scapito degli spazi di discrezionalità che pure nella prospettiva europea devono essere lasciati e che invece di perseguire la strada tracciata di maggiori responsabilità e più controlli, si pratichi quella opposta della riduzione del potere discrezionale, inserendo automatismi sia nella organizzazione, che nel processo decisionale. Quella che è stata definita icasticamente l’idea di amministrare senza amministrazione.
In un parere sullo schema di linee guida recanti “Monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato”, il Consiglio di Stato dopo aver rappresentato i pregi del sistema attuativo affidato all’Anac e alle linee guida, manifesta però la preoccupazione che attraverso di esse si limiti troppo la discrezionalità delle amministrazioni, chiarendo che è necessario che le linee guida dell’Anac forniscano indicazioni e indirizzi operativi chiari, per un uso efficace dello strumento del partenariato pubblico privato e che disciplinino gli spazi di discrezionalità delle stazioni appaltanti, comunque necessari per poter gestire contratti relativi a servizi anche molto differenti.
Il Consiglio di Stato afferma, quindi, che la discrezionalità è un momento imprescindibile dell’attività della pubblica amministrazione e ne dà una motivazione sintetica, ma efficace: le stazioni appaltanti devono scegliere tra servizi così differenziati, che non possono essere rigidamente predeterminati dall’Autorità. Pensare di delimitare la discrezionalità in modo molto rigoroso rischia di produrre a valle dei risultati disfunzionali, perché c’è una grande varietà di soluzioni tecniche, che l’amministrazione deve valutare e tra cui deve scegliere, per garantire l’efficacia dell’azione amministrativa.
L’Autorità Anticorruzione, nella chiave di lettura che ne dà il Consiglio di Stato, ha il delicato compito di convogliare nel giusto ambito di legalità l’ampia discrezionalità amministrativa che nella materia de qua (nel caso del parere il partenariato pubblico privato) è attribuita all’amministrazione pubblica, senza sostituirsi alle doverose scelte discrezionali proprie della stazione appaltante.
Il problema dei vincoli alla discrezionalità della pubblica amministrazione si è posto anche relativamente al potere dell’Anac di emettere raccomandazioni vincolanti, previsto dall’articolo 211 comma 2, che consumava la discrezionalità della pubblica amministrazione di agire in autotutela, prima che la legge n. 96 del 2017 accogliesse il suggerimento del Consiglio di Stato e riconducesse tale potere nell’alveo dei pareri di precontenzioso. Il potere, così rimeditato, lascia intatta la discrezionalità della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela.
Molti autori hanno messo in evidenza la pericolosità della cultura del sospetto, di una regolazione basata su norme di contrasto alla corruzione che limitino eccessivamente la discrezionalità amministrativa, ingessando il sistema a scapito dell’efficienza.
A ben guardare il fine dell’evidenza pubblica è proprio l’efficienza, raggiunta attraverso la massima concorrenzialità per la selezione del miglior offerente. In tal modo, funzionalizzando la concorrenza agli obiettivi di efficienza si andrebbero anche a ridurre gli spazi entro i quali può proliferare la corruzione. Ecco perché una politica di prevenzione della corruzione che non tenga conto dell’efficienza è destinata a fallire, se l’obiettivo è anche quello del buon utilizzo delle risorse pubbliche, dello sviluppo economico del Paese, dell’apertura all’investimento dei capitali esteri e della crescita sostenibile.
L’uso corretto della discrezionalità, bilanciata da sistemi di controllo della performance, non può che apportare benefici in termini di maggior consapevolezza delle scelte affrontate dalla pubblica amministrazione e di riduzione delle asimmetrie informative che caratterizzano i rapporti tra pubblico e privato.
All’esercizio della discrezionalità deve fare da contraltare la trasparenza, (strumento preventivo cardine di contrasto alla corruzione) e l’accountability: l’amministrazione deve integrare le sue decisioni discrezionali con una motivazione pubblica delle ragioni che hanno determinato il provvedimento, in modo da favorire forme diffuse di controllo sociale sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
Infine, l’ulteriore critica che è stata sollevata da vari costituzionalisti attiene al pericolo di affidare ad Autorità prive di responsabilità politica la determinazione erga omnes del contenuto di diritti e obblighi, con lesione dei principi di rappresentanza democratica e al pericolo che la tecnocrazia si sostituisca alla democrazia e la competenza alla politica nella regolazione generale e astratta dei rapporti giuridici.
Dopo il fallimento della politica, forse potremmo puntare sulle competenze. Se la competenza è il più potente strumento di prevenzione della corruzione, affidargli il settore più attanagliato da questo fenomeno che è a un tempo dramma sociale ed emergenza etica, non sembra un pericolo, ma una sfida e un’opportunità.
Ed anzi, la neutralità, la terzietà e l’indipendenza dal potere politico è proprio la ragione che ha spinto il Legislatore ad istituire le Autorità Amministrative Indipendenti ed affidargli compiti di tanta e tale delicatezza, che necessitano di particolare sensibilità.
In conclusione, si possono (e si devono) considerare con attenzione le attività dell’Anac, valutarne la compatibilità con il nostro ordinamento giuridico, con il sistema delle fonti, misurarne i poteri, sulla carta e nel loro concreto esercizio, ma sarebbe ingeneroso addebitare all’Anac difetti che sono del nostro assetto istituzionale e della cornice legislativa, nel caso di specie quella degli appalti. Come rilevato dallo stesso Consiglio dell’Anac, “invece di attardarsi a contare quante volte la parola “corruzione” ricorre nel testo del nuovo Codice, sarebbe più costruttivo per i detrattori considerare con quale scrupolo l’Autorità eserciti i propri poteri, spesso colmando lacune e contraddizioni della legislazione vigente”.
In diritto il vuoto tende a riempirsi. Che sia la competenza a riempirlo non è una scelta dell’Autorità, ma della politica. Tanto basta a ricondurre a sistema l’Autorità Anticorruzione e i suoi poteri.
Infine, come opportunamente rilevato dal Consiglio di Stato, una riforma, per quanto ben costruita, è tale solo quando raggiunge una effettiva attuazione, mediante sia la normativa secondaria che la concreta applicazione amministrativa. Il successo o il fallimento di una riforma dipende soprattutto dalla sua attuazione, dal modo in cui viene calata nel contesto che si presta a disciplinare, dalla capacità di incidere su cittadini e imprese, migliorandone il rapporto con il pubblico potere, semplificando l’esercizio delle attività private, modificando positivamente gli indicatori dell’economia e della qualità della vita. Per far questo la riforma ha bisogno di tempo, di respiro, di comprensione e assimilazione.
C’è da augurarsi che questo sistema delineato dal Codice funzioni e ci restituisca un quadro regolatorio chiaro e stabile, che generi efficienza e tuteli la concorrenza. Per far questo il sistema ha bisogno di fiducia, nelle istituzioni, anche nuove, nell’amministrazione, nelle competenze che sta generando e che a loro volta genereranno buona e sana amministrazione. Occorre essere generativi non soltanto critici, perché se il sistema funzionerà sarà perché, e solo se, tutti gli attori coinvolti, (la politica, le Autorità, le amministrazioni pubbliche, gli operatori economici, professionisti e studiosi), avranno fatto la propria parte, contribuendo al successo di questa storica riforma.

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