BUROFISCO. EVASIONE, I RECORD DELL`ITALIA IN FUGA DAL FISCO

procedimento amministrativo

 

Coprire le spese sanitarie della nazione per un anno intero. Oppure mettere in sicurezza tutto il patrimonio edilizio italiano. O ancora, tagliare almeno un quinto delle tasse. Lasciamo alla fantasia ciò che si potrebbe fare con più di cento miliardi. Quei soldi appartengono solo alla sfera dell’immaginario, scrive Sergio Rizzo, su La Repubblica del 4 ottobre 2017 alle pagine 1 e 6, perché il Paese ha deciso che la lealtà nel pagare le tasse non è un valore.

I soldi sottratti all’erario, 111 miliardi l’anno, secondo i calcoli della commissione governativa sull’economia sommersa, sono sottratti alla collettività da un esercito di evasori: quel che è più grave, senza colpo ferire. Perché qui lottare contro i furbetti è come svuotare il mare con il colapasta.

In Italia si riscuote appena 1’1,13 per cento del carico fiscale affidato all’esattore, contro una media Ocse del 17,1 per cento. Anno dopo anno, infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014. E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta.

Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c’è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi.

Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012.

Una situazione tale da far dire al presidente dell’Istat Giorgio Alleva che la lotta all’evasione «è strategica».

Ovvio, il problema è come farla.

Perché il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio & affini, in occasione di un suo intervento alla bolognese InsolvenzFest, organizzata ogni anno dall’Osservatorio sulla crisi d’impresa.

Per non parlare dell’Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l’Italia è il Paese europeo che detiene il record dell’evasione di questa imposta. Ma purtroppo non è una notizia nuova, perché è così da sempre. Il differenziale fra l’Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4. È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto. Perché la crisi da sola non spiega il fatto che l’Italia rappresenti quasi un quarto dell’evasione Iva dell’Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate.

La Corte dei conti certifica un dato mostruoso che era stato già calcolato da Confartigianato: su un’impresa di medie dimensioni grava un carico fiscale complessivo del 64,8 per cento, superiore di quasi 25 punti alla media europea (40,6). Né le cose vanno meglio per il cuneo fiscale, che con il 49 per cento oltrepassa di dieci punti il valore medio continentale (39). E se la pressione del fisco, che statisticamente si è aggirata negli anni più recenti intorno al 43 per cento (decimale più, decimale meno), risulta inferiore a quella di Danimarca, Francia, Belgio, Finlandia e Austria, non si può non considerare che a sostenerla è una platea di contribuenti in proporzione nettamente più ridotta.

Per non parlare della qualità dei servizi offerti con quel costo ai cittadini italiani.

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