Le regole del gioco
Maggio 2012. Primo anno di università, primi esami. Nuovo modo di vedere i libri, i corsi, gli insegnanti. Diversa percezione della propria formazione e della propria crescita. L’università ti fa rendere conto di tante cose. Innanzitutto, rispetto al liceo, tutto acquisisce una dimensione più individualistica. Inizi a percepire davvero di essere solamente un pesciolino in un mare di altri pesci e, con intensità più o meno grande,inizi a prendere coscienza di chi sei ma soprattutto di chi vuoi essere. Inoltre, quando uno studente esce dalla scuola secondaria, necessariamente si trova a doversi staccare da tutto ciò che la scuola di per sé rappresenta. Infanzia, adolescenza, spensieratezza, mancanza di responsabilità, leggerezza, non considerazione delle conseguenze. Ma “è giusto”? (non amo l’aggettivo in questione. Il suo uso implica una serie di premesse e assunzioni che complicherebbero il discorso). “Giusto” si, fino ad un certo punto.
Maggio 2012. Primo anno di università. Primi esami. A Tor Vergata, gli esami sostenuti da un numero molto elevato di studenti si svolgono nelle aule più grandi. L’esame di microeconomia era uno di quelli. Aula Magna, nello specifico. Il professore prima di farci entrare ci chiede il libretto universitario, dove sono indicati tutti i nostri dati, nonché la nostra foto. Verifica attentamente la corrispondenza dei nostri volti con quelli sul libretto con fare autoritario. Ricordo ancora lo stato di ansia che qualcosa potesse andare storto, nonostante fosse assolutamente irreale: insomma, il nome ed il cognome erano quelli per forza! L’assistente del professore ci fa sedere a due posti di distanza l’uno dall’altro, a file alternate in modo da stare abbastanza lontani. L’aula si riempie. Il Professore, con calma e una solennità mai vista prima, forte del rispetto e dell’attenzione dei suoi studenti, prende il microfono in mano.
“Bene ragazzi. Le regole del gioco”.
10 minuti, se non di più, che non scorderò mai. Gli occhi degli studenti fissi sul professore con la stessa intensità delle lezioni. Orecchie appizzate.
Etica. Integrità. Trasparenza. Onestà. Come è possibile immaginare, il fil rouge e il messaggio erano “Non copiate”. Ma a differenza degli altri moniti a non copiare, questa volta il professore puntava alla nostra intelligenza. E un po’ sicuramente ai nostri sensi di colpa. Copiare, far copiare è ingannare. Ingannare il professore, gli altri studenti, se stesso e alla fine dei conti, il sistema. Noi siamo cittadini del mondo e in primis della società. Miriamo a far funzionare le cose; ci aspettiamo di trovare un buon lavoro e magari ben retribuito. Vogliamo rispetto, gratificazioni, senso di appartenenza; vogliamo avere ciò che pensiamo di meritarci e, a tal fine, tutto deve funzionare in modo adeguato. E fin qui tutto ok. Le cose cambiano quando siamo i primi a far si che le cose non vadano nel verso giusto. “Ma che sarà mai? È solo un esame!” si certo.. con la stessa logica con cui si ruba “una cosa di poco valore alla fine” oppure quando si truffa qualcuno pensando: “per una volta che sarà mai”. Quella volta non sarà la sola, però.
E così, la scuola diventa la prima maestra di disonestà. Perché è vero, a scuola è normale copiare! Due studenti su tre copiano e l’83% degli adolescenti non li condanna (Marcello Dei, 2011).
Immediata è l’associazione con gli inganni tra i banchi di scuola e la corruzione nelle grandi opere. Chi copia passa avanti ai colleghi onesti esattamente come chi vince un appalto grazie alle mazzette. Chi fa copiare, lo fa per non essere emarginato dagli altri, per non essere additato come il “secchione” di turno. E anche qui, chi passa il compito, lo dovrebbe passare a tutti in modo da essere corretto, non solo al gruppetto di amici. Il passo all’assegnazione di appalti ad amici e parenti è breve.
Nasciamo, cresciamo, apparteniamo ad una collettività. Partiamo dai banchi di scuola e si presuppone che prima o poi occuperemo le fila e saremo parte attiva della società.
Ho apprezzato molto il discorso di quel professore, il giorno dell’esame. Noi siamo ragazzi, è vero. Ma siamo ormai grandi per avere delle idee e per essere portatori di valori. Quel professore sapeva che, in quel contesto, nonostante universitario, c’era la concreta possibilità e tentazione di copiare. Ed in questo c’è sicuramente qualcosa di sbagliato.
“Poniamo come massima incontestabile che i primi impulsi naturali sono sempre buoni: non esiste alcuna forma di perversità originaria nel cuore umano; non vi si trova un sol vizio di cui non si possa dire come e perché vi sia penetrato. La sola passione naturale nell’uomo è l’amore di sé o amor proprio in senso lato. Questo amor proprio […] è per natura eticamente neutro, ma diventa buono o cattivo per i modi e per le circostanze in cui viene applicato.”
Russeau (Emilio, 1762) già al suo tempo ci suggeriva una cosa molto importante: l’uomo è naturalmente buono ma la società lo corrompe. Inoltre Rousseau ritiene impossibile un’educazione pubblica che si rispetti, all’interno di una società corrotta. E sono queste le basi al suo trattato di pedagogia. Un trattato in cui spiega a chiare parole al suo allievo che “l’ignoranza non ha mai fatto del male. Che solo l’errore è funesto. Che l’uomo non si smarrisce per ciò che non sa, ma per ciò che crede di sapere”(Emilio, p.210, 1762).
Ovviamente dobbiamo considerare il fatto che le critiche di Rousseau erano indirizzate all’organizzazione della società del suo tempo, nei suoi valori dominanti: assenza di libertà, disuguaglianza economica, sociale e morale.
Permettetemi di dire che non trovo molte differenze con l’attuale situazione della società in cui viviamo. E i ragazzi vivono e crescono con questi valori. Non trovano nessun male nel copiare, nell’ingannare, nel truffare. La scuola è ormai arresa alla cultura del consumo, allo sprezzo delle regole e il tutto in un clima di tolleranza che smentisce il principio di autorità, svuota il senso della cittadinanza, mina il rispetto della legalità. Con la benedizione di tutti: genitori, insegnanti ed intellettuali. “Copiare per diventare cattivi cittadini”. (Marcello Dei, 2011)
Seguendo il ragionamento di Rousseau, quando nasciamo l’educazione ci viene impartita da tre maestri di vita: dalla natura, dagli uomini,dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini c’insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l’educazione delle cose. Tra queste tre, solo l’educazione degli uomini può essere controllata. Ma “chi mai può sperare di controllare interamente discorsi ed azioni di tutti coloro che vivono intorno a un fanciullo?” (p. 9)
L’ideale sarebbe che gli insegnamenti vertessero tutti sugli stessi punti e tendessero agli stessi fini. Ma, per l’appunto, è una situazione ideale.
Troppi esempi sbagliati, troppe persone sbagliate ed ecco che la società è marcia.
Eppure c’è ancora qualcuno che ci spera; c’è ancora qualche insegnante che prova a imprimere nella mente e nell’animo degli studenti una coscienza etica e personale più profonda. Ma questa dovrebbe essere la normalità.
Ringrazierò sempre quel discorso e quel professore. Eticità, trasparenza, onesta. Sono questi i valori di cui mi faccio portatrice e che auspico alle nuove generazioni.
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