Quanto vale l’economia criminale: l’audizione del governatore Visco
Quanto incide la criminalità organizzata sull’economia del nostro paese? Molto, moltissimo. Lo ha detto a chiare lettere il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in audizione alla Commissione antimafia il 14 gennaio 2015. Corruzione, mercati illegali, fuga degli investimenti esteri, cattiva allocazione della spesa pubblica. Visco ha individuato i malanni del sistema economico italiano legati alle pesanti infiltrazioni di mafie e criminalità.
Il numero uno della Banca d’Italia è partito da una misurazione quantitativa delle attività economiche illegali. Pur ricordando che l’analisi di fenomeni tipicamente “sommersi” è assai complessa, ha elencato una serie di stime riguardanti il valore effettivo delle attività criminali. Quelle più preoccupanti vengono dall’Istat, secondo cui l’economia illegale, intesa come commercio di sostanze stupefacenti, attività di prostituzione e contrabbando di tabacchi ha pesato complessivamente dello 0,9% sul PIL nazionale, una cifra superiore ai 150 miliardi di euro. Secondo stime che si basano sulla quantità di moneta in circolazione, invece, l’Istituto di statistica nel quadriennio 2005-08, ha quantificato il sommerso criminale in Italia superiore del 10% del PIL; ancora, il centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica di Milano, che considera droga, traffico di armi e tabacco, contraffazione, gioco e frodi fiscali, ha valutato questi mercati in circa 110 miliardi di euro all’anno in Europa, di cui poco meno di 16 in Italia.
Ma ancor più significative appaiono le conclusioni emerse da una misurazione qualitativa del fenomeno, che mira a valutare gli effetti delle attività illegali sul funzionamento del nostro sistema economico. “L’impatto economico più significativo della criminalità” – ha spiegato Visco sul punto – “non consiste tanto nel valore di quanto prodotto attraverso attività criminali, ma, con effetti di ben più lungo periodo, nel valore di quanto non prodotto a causa delle distorsioni generate dalla diffusione della criminalità”.
Utilizzando i dati di Doing Business, un indicatore che fornisce una sintesi della qualità dell’ambiente istituzionale, il governatore ha calcolato che “a parità di altre condizioni, se le istituzioni italiane fossero state qualitativamente simili a quelle dell’area dell’euro, tra il 2006 e il 2012, i flussi di investimento estero in Italia sarebbero risultati superiori del 15 per cento – quasi 16 miliardi di euro – agli investimenti diretti effettivamente attratti nel periodo”.
E se, da un lato, la percezione di un alto tasso di criminalità provoca una massiccia fuga di investimenti esteri, dall’altro, la presenza della criminalità organizzata è causa di una cattiva allocazione delle risorse pubbliche. Si è infatti evidenziato come specialmente nelle regioni meridionali, territori caratterizzati da una più alta densità criminale, le amministrazioni pubbliche tendono a ricevere, a parità di altre condizioni, maggiori incentivi pubblici. Un esempio su tutti: il confronto di quanto accaduto in Friuli Venezia Giulia e in Irpinia dopo i terremoti del 1976 e del 1980, in seguito all’afflusso di fondi pubblici: “nel corso dei trenta anni successivi” – si legge nel testo dell’audizione –, “in Friuli Venezia Giulia, dove la criminalità organizzata non era presente, la crescita del PIL pro capite è stata superiore di circa 20 punti percentuali a quella osservata in una regione controfattuale, mentre in Irpinia, dove la criminalità organizzata era fortemente radicata, la crescita del PIL pro capite è stata inferiore di circa 12 punti percentuali rispetto a quella della regione di controllo”.
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