Derivati, demonizzarli o rivalutarli? Articolo a cura di Filippo Cucuccio

Nella categoria Analisi e Ricerche da su 2 novembre 2020 0 Commenti

Il controverso tema dei derivati è stato al centro del webinar promosso dalla Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma e dall’Associazione nazionale per lo Studio dei Problemi del Credito

Derivati, demonizzarli o rivalutarli?

Saranno stati in parecchi, tra quanti si sono collegati all’evento webinar “I derivati: uno strumento finanziario da demonizzare o da rivalutare?”, organizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università Sapienza di Roma in collaborazione con l’Associazione Nazionale per lo Studio dei Problemi del Credito – ANSPC, a rimanere stupiti apprendendo dalla relazione di Domenico Siclari, Ordinario di Diritto dell’Economia e dei Mercati finanziari, che in realtà il tema dei derivati ha ricevuto un’attenzione giuridica non solo in questi ultimi anni, ma molto prima. Lo testimoniano inequivocabilmente due esempi: una sentenza di un tribunale francese e una norma codicistica della Germania, risalenti addirittura al secolo XIX.

Ma di derivati quest’anno in Italia si è soprattutto parlato dopo la sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione dello scorso maggio, intervenuta nella lite giudiziaria apertasi nel 2003 tra il Comune di Cattolica e la Banca Nazionale del Lavoro, sancendo alcuni importanti principi in materia di trasparenza delle condizioni e di informazioni tra intermediario finanziario e cliente.

Volendo uscire da questa ottica per proiettarci in un contesto ancor più ampio Paolo Cucurachi, Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università del Salento di Lecce, ha opportunamente sottolineato che, affrontando questo argomento, bisogna tener conto dell’aspetto dimensionale di questo mercato. Su base mondiale, stando ai dati del secondo semestre del 2019 della Banca dei Regolamenti Internazionali 560 trilioni di dollari, di cui 523 relativi a derivati sui tassi di interesse.

Inoltre, – ha aggiunto Cucurachi – “i derivati come qualsiasi strumento finanziario non sono né buoni né cattivi, ma devono essere utilizzati con consapevolezza per assolvere le funzioni ad essi attribuite”; funzioni che possono essere di copertura, di speculazione o di arbitraggio. In particolare, soffermandosi sui derivati di copertura sembra corretto  “valutare congiuntamente l’operazione originaria con quella derivante di copertura… anche per evitare la confusione tra flussi associati al derivato con il guadagno o la perdita derivante dall’operazione di copertura”.

Dal canto suo Dario Focarelli, Direttore Generale dell’ANIA ha ricordato un esempio particolarmente significativo di applicazione di questo strumento in Italia. A seguito della delibera IVASS n.86 del 2018 “le imprese assicurative possono utilizzare una strategia dei derivati per la protezione del valore dei titoli in portafoglio delle gestioni separate”. Il tutto naturalmente accompagnato da adeguati presidi di governance e di tutela del consumatore che coinvolgono la responsabilità dei Consigli di Amministrazione delle imprese e la verifica da parte di società di revisione della correttezza del risultato finanziario dell’operazione .

Il vantaggio per le imprese – ha  ribadito Focarelli – è quello di “una maggiore stabilità nel tempo del rendimento delle gestioni, aspetto particolarmente apprezzato dagli assicurati, a maggior ragione in un periodo di grande volatilità e incertezze”.

A fronte di queste considerazioni che vengono dalle realtà dei mercati rimane il dato di fatto – come ha ricordato Nello Rossi, Direttore di Questione Giustizia, già Avvocato Generale presso la Corte di Cassazione, che il tema dei derivati in Italia evoca una pluralità di contenziosi: da quello civile sulla natura giuridica del contratto e sulle condizioni di validità; a quello amministrativo sulle condizioni di legittimità della stipula da parte di enti pubblici e sul rispetto delle regole e delle competenze relative alla loro attività; a quello erariale per la responsabilità dei pubblici funzionari che hanno stipulato contratti derivati risultati dannosi non solo per gli enti locali, ma anche per le amministrazioni centrali; a quello penale, in cui sono state diverse le ipotesi di reato configurate dalla magistratura. Dalla truffa contrattuale, all’usura, alle false comunicazioni sociali; dall’ostacolo alla vigilanza, alla bancarotta fraudolenta.

Oggettivamente la materia dei derivati, anche a giudizio di Nello Rossi, si contraddistingue per la sua complessità, anche perché non ci si è certamente fermati all’esempio applicativo più semplice, quello dei plain vanilla, ma si è andati ben oltre. C’è, infine, da osservare che la grande maggioranza dei procedimenti si è conclusa con una richiesta di archiviazione e che “nella elaborazione giurisprudenziale penalistica è estremamente difficile  rintracciare delle costanti per la grande varietà dei contratti finanziari derivati e per la novità delle questioni affrontate”.

Per giungere allora a una soddisfacente risposta al quesito contenuto nel titolo di questo incontro (strumento da demonizzare o rivalutare) sembra utile affidarsi, sia al monito di Paolo Cucurachi, che punta il dito sulla necessità di sanare il deficit culturale che affligge il nostro Paese rispetto ad altre realtà nazionali in cui “i derivati hanno pieno diritto di cittadinanza”; sia all’esortazione di Domenico Siclari, che invita a ”riflettere sulle prospettive di ragionamento dell’immediato futuro che devono tendere ad assicurare certezza del diritto e buon funzionamento del mercato”. Il che tradotto sul piano della concretezza operativa significa auspicare che normativa e giurisprudenza da un lato, mercato e operatori dall’altro possano veramente andare a braccetto a beneficio della crescita culturale ed economico – finanziaria del Paese.

 

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