Dubai, l’ultima utopia. Recensione a cura di Filippo Cucuccio

Nella categoria Analisi e Ricerche da su 1 agosto 2020 0 Commenti

Quali sono le vere ragioni del successo del cosiddetto «modello Dubai»? Ed è effettivamente un modello da seguire, o da rifiutare decisamente, nonostante le apparenze? Sono i due interrogativi fondamentali di questo libro di Emanuele Felice, professore di Politica economica all’Università «Gabriele d’Annunzio» di Chieti-Pescara.

Leggendo quest’opera, si avverte chiaramente la sensazione di trovarsi di fronte a un reportagegiornalisticamente coinvolgente, basato sull’esperienza diretta di viaggi e soggiorni dell’autore in quella città.

Il libro, diviso in 5 capitoli, all’inizio offre al lettore una panoramica dei tratti essenziali di Dubai, a cominciare dalla scritta «Benvenuti nella città più felice del mondo», che accompagna il visitatore nel percorso che dall’aeroporto conduce alla metropolitana in direzione della città. Ed è altrettanto positiva l’impressione suscitata dai servizi e dalle immagini che si susseguono: dalla magnificenza di alcune costruzioni, tra cui spicca la Torre di Khalifa, la cui antenna sfiora gli 830 metri, agli altri edifici scintillanti di luci, all’opulenza dei negozi del Centro commerciale per eccellenza, Dubai Mall, forse la maggiore attrazione in assoluto.

Ma, a un’indagine più attenta, l’autore si imbatte in aspetti sconcertanti di questa città, come le evidenze fattuali di un impatto brutale sulla natura, causato dagli interventi operati nella zona costiera con la creazione di penisole artificiali a forma di palma, per favorire lo sviluppo dell’edilizia residenziale. Interventi che, fatta eccezione per il caso dell’isola artificiale di Palm Jumeirah, non sempre sono riusciti bene, come testimonia il loro mancato completamento.

Se poi dalle considerazioni paesaggistiche si passa alle caratteristiche del regime di monarchia autoritaria che ormai da decenni costituisce il tratto essenziale di Dubai e dell’altra città confederata, Abu Dhabi, le note dolenti si infittiscono. Infatti, è avvilente scoprire la totale assenza di diritti civili e di libertà politiche, solo in parte compensati dalle elargizioni spesso munifiche a beneficio esclusivo dei nativi. Per tutti gli altri, che provengono da altri territori, generalmente contrassegnati da indici di marcata povertà, i livelli di salario bassi e l’incertezza totale della propria situazione – caratterizzata da un contratto triennale di lavoro che può essere rescisso in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione – testimoniano la fragilità del sistema quanto a tutele e garanzie riconosciute ai lavoratori stranieri.

L’autore ricorda anche la mancanza di una legislazione fiscale e di una normativa di controlli finanziari, che hanno fatto e continuano a fare di Dubai uno dei principali centri di riciclaggio internazionale di denaro sporco. Una macchia grave, che ultimamente è stata rimossa solo in parte con la cancellazione di Dubai dalla black list dei Paesi Ocse giudicati poco trasparenti, e quindi ad alta potenziale intensità criminogena.

Vi è poi da segnalare un altro profilo interessante di questo libro: una ricostruzione storica, che parte dall’età medievale per giungere ai giorni nostri e che mostra come il fenomeno dello sviluppo di Dubai, a differenza di quanto avvenuto negli altri Paesi arabi, è solo in minima parte (5%) determinato dai proventi dell’estrazione del petrolio. Il successo di questo modello, in realtà, poggia sulle capacità politiche e imprenditoriali della famiglia di sceicchi che la governano da alcune generazioni di costruire un solido capitalismo, attraendo in misura cospicua capitali e investimenti stranieri.

Si giunge così al capitolo conclusivo del libro, in cui l’autore esprime una valutazione critica del modello consumistico di Dubai. In esso, infatti, si scambia «il sentirsi contento con l’essere felice» (p. 212), privilegiando, in definitiva, l’appagamento momentaneo rispetto alla soddisfazione complessiva della vita, alle relazioni umane nei loro aspetti sociali e politici.

 

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