Cassazione, derivati ed enti pubblici: sentenza che farà discutere Di Filippo Cucuccio
La recente sentenza della Suprema Corte in materia di derivati sottoscritti dagli enti locali esclude quelli tipicamente speculativi e obbliga a far ricorso agli scenari probabilistici
Quel che è certo è che questa sentenza della Suprema Corte di Cassazione farà molto discutere, anche se per gli effetti dispiegati sul piano concreto rimangono, ad una prima analisi, margini di incertezza dimensionale.
Si sta qui parlando della recente pronuncia n.8770 a Sezioni Unite Civili che è intervenuta sulla delicata materia dei contratti derivati sottoscritti da enti pubblici e locali, statuendo alcuni principi di particolare interesse che vanno al di là della specifica controversia, che vedeva contrapposti dal 2003 il Comune di Cattolica e la Banca Nazionale del Lavoro.
La legittimazione dei contratti derivati esclusivamente per quelli con funzione di copertura, escludendo gli altri tipicamente speculativi, la necessità di fare ricorso a scenari probabilistici, nell’ambito di una informativa più completa e adeguata da fornire al cliente da parte della banca, sono solo alcuni dei caposaldi di questa sentenza su cui si sono raccolte prime importanti valutazioni di giuristi ed economisti nel corso di un seminario di approfondimento, recentemente organizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università Sapienza di Roma.
Per Renato Finocchi Ghersi, Avvocato Generale della Corte di Cassazione, che nel dibattimento in aula ha esposto le ragioni accolte nella pronuncia della Corte, è “molto importante nella parte iniziale della sentenza la descrizione e l’inquadramento dei contratti di swap in un contesto generale, individuando sotto questo profilo la loro causa giuridica. Così, si offre una riflessione generale per l’inquadramento di questi contratti anche se conclusi tra soggetti privati, e indirettamente si evidenzia la loro inadeguatezza rispetto ai principi della contabilità pubblica”. In secondo luogo, nella sentenza, in modo molto realistico, si richiede, “anche nei casi in cui i contratti di swap abbiano funzione di copertura e non siano speculativi, una sufficiente informazione da parte dell’intermediario all’ente pubblico in riferimento ai rischi, alle condizioni di mercato ed a tutti gli altri parametri indicati nella sentenza”.
Seguendo questo percorso argomentativo la sentenza – aggiunge Finocchi Ghersi – “non si limita ad affermare che la previsione di un up-front, associato allo swap, costituisce un finanziamento, e quindi un indebitamento dell’ente pubblico Nel caso di specie, a mio avviso, sarebbe stato sufficiente ribadire questo principio per affermare la nullità del contratto, dal momento che è pacifico che tale finanziamento fu utilizzato per spese correnti, in violazione del principio costituzionale ex art. 119 Cost. e della normativa di attuazione”. Si tratta, conclude Finocchi Ghersi, si “un aspetto particolarmente apprezzabile di questa sentenza, anche in chiave di lettura di finanza pubblica italiana, in un momento storico in cui il Paese più che mai deve presentarsi in Europa con un assetto istituzionale che garantisca la trasparenza e l’affidabilità”.
Anche per il giurista Andrea Tucci, Ordinario di Diritto dell’Economia all’Università “la decisione della Suprema Corte è ampiamente condivisibile; anche se non sempre persuasiva e, per certi aspetti, finanche fuorviante, nella dimensione nomofilattica di orientamento della giurisprudenza e dei consociati, appare la motivazione, soprattutto in quella sorta di parte generale che la Corte ha ritenuto di premettere alla vera e propria decisione del caso concreto”.
Un appunto viene, poi mosso da Tucci sulla parte speciale della sentenza, dedicata allo “scivoloso tema della (misurazione del) valore delle prestazioni e dei suoi riflessi sulla determinatezza/determinabilità dell’oggetto del contratto, nonché al non meno infido problema della qualificazione giuridica del c.d. upfront, soprattutto per le possibili ricadute delle statuizioni di principio ivi contenute, ben oltre l’ambito del contenzioso fra intermediari ed enti locali”.
Qualche perplessità desta, infine, “la scarsa attenzione dedicata nella sentenza alla disciplina dei servizi di investimento, applicabile alla negoziazione di strumenti finanziari derivati, in sede di enunciazione di regole e princìpi, apparentemente, destinati a trovare applicazione anche nei rapporti fra intermediari e clienti privati; a vantaggio di un’argomentazione incentrata, prevalentemente, su categorie generali e costruzioni dogmatiche, poco attente anche ai precedenti della giurisprudenza di legittimità”.
Passando al versante degli economisti, Marcello Minenna, attualmente Direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, ma con un passato da economista in Consob, dove aveva dedicato ampi spazi di approfondimento al tema degli scenari probabilistici, esprime il suo compiacimento, definendo questa sentenza “una pronuncia epocale che finalmente riconosce che senza un accordo tra le parti sull’alea cioè sui rischi del derivato il contratto è nullo”. E aggiunge: “La Cassazione ha stabilito la regola iuris secondo cui gli enti pubblici possono concludere derivati solo a fini di copertura e solo dopo aver ricevuto dalla banca le informazioni sul valore del mercato gli scenari probabilistici e i costi occulti”. Partendo dal presupposto che il valore di mercato (mark to market) è solo un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea, Minenna conclude, affermando che “è fondamentale disporre ex ante di una stima oggettiva della probabilità di guadagno o di perdita e dell’entità attesa di guadagni e delle perdite”. In tal modo, “viene sancito un precedente destinato a diventare una pietra angolare in materia di misurazione e rappresentazione, stabilendo che gli scenari di probabilità sono una conditio sine qua non per la validità dei contratti”.
Di ben diverso avviso è un altro economista, Paolo Cucurachi, Ordinario di Tecnica degli Intermediari Finanziari all’Università del Salento, che perentoriamente afferma: “La sentenza è largamente insoddisfacente per le conclusioni a cui giunge che non condivido ma soprattutto per il metodo seguito per affermare tali principi”. Infatti, per Cucurachi “la sentenza è ricca di contraddizioni e di errori tecnici, essendo del tutto priva di contestualizzazione del fenomeno rispetto al periodo storico nel quale sono stati sottoscritti la maggior parte di contratti derivati da parte degli enti pubblici”. In proposito si rileva che, oltre al “frequente riferimento a nozioni codificate solo dopo il recepimento del Mifid1, non si tiene in alcun conto l’evoluzione dei tassi di interesse, segnati da una dinamica del tutto inattesa e che nessun modello prevedeva”.
Criticata la legittimazione ristretta dalla sentenza ai soli contratti di copertura e ribadito che, comunque, ogni strumento finanziario ha in sé una dose di aleatorietà, Cucurachi, passa, infine, a citare tre appunti specifici che possono essere mossi a questa sentenza.
Primo. “Nei contratti di copertura più tradizionali (ad esempio IRS- Interes Rate Swap) non vi è alcuna alea razionale da valutare, in quanto l’obiettivo che si vuole raggiungere è proprio quello di rendere il costo del debito indipendente dall’aleatorietà dei tassi di interesse di mercato. Ne si può immaginare che in un contratto di copertura – l’unico che sembrerebbe ammissibile per la sentenza – si possa parlare di convenienza economica, ma semplicemente di scelte coerenti con l’avversione al rischio dell’ente”.
Secondo. “Non è neanche vero che le banche siano in strutturale conflitto di interessi con l’ente pubblico, in quanto il margine generato da queste operazioni non deriva dall’entità dei flussi periodici, ma dalla differenza tra il contratto negoziato con l’ente locale e quello negoziato sul mercato interbancario, proprio per eliminare alla radice qualsiasi ipotesi di disallineamento tra interessi del clienti ed interessi della banca”.
Terzo. Andrebbe approfondito anche “l’aspetto dell’upfront, come forma di indebitamento da attribuire all’operazione derivata senza preoccuparsi dell’origine dello stesso. In molte operazioni di rifinanziamento il debito non è generato dall’apertura di un nuovo contratto, ma dalla chiusura del precedente e, quindi, non può darsi per scontato che si debba considerare come un indebitamento legato alla nuova operazione di swap”.
Concludendo la rapida rassegna di qualificate opinioni in positivo, ma anche di critiche legate a una prima analisi di questa sentenza della Cassazione, non si può non concordare con quanto sottolineato da Domenico Siclari, Ordinario di Diritto dell’Economia e dei Mercati Finanziari all’Università Sapienza di Roma, quando sostiene che “questa sentenza rappresenta, comunque, un passo in avanti nella materia in esame”; evidenziando in ogni caso “l’esigenza di coordinamento, di cui sempre più si avverte il bisogno, tra i diversi indirizzi giurisprudenziali emersi nel corso degli ultimi anni e, in modo particolare, tra quelli del giudice ordinario e quelli del giudice amministrativo, anche in considerazione delle numerose pronunce emesse dal Consiglio di Stato”.
Infine, sicuramente, non meno importante è l’altro aspetto cui fa riferimento Siclari circa la necessità di proseguire nel “percorso arduo e complesso volto al raggiungimento dell’obiettivo ambizioso di dare a un mercato in continua evoluzione, anche per la dirompente innovazione tecnologica, piena certezza di regole giuridiche a tutela dell’affidamento degli operatori e del suo buon funzionamento complessivo”. Una sfida sicuramente appassionante e della quale saranno scritti altri capitoli interpretativi nel prossimo futuro.