BUROCRAZIA. IL PAESE DELLE LEGGI SPECIALI

 

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Ogniqualvolta la verifica nell’avanzamento del programma di questo o quell’intervento mette in evidenza criticità, ritardi e, soprattutto, perplessità circa la possibilità di rispettare il cronoprogramma iniziale con procedure ordinarie, si ascoltano appelli al Governo a varare per tempo misure straordinarie che consentano deroghe procedimentali, assegnando poteri speciali a strutture e figure create ad hoc.

Provvedimenti che, ogni volta, sono ritenuti assolutamente necessari per evitare il rischio di brutte figure all’Italia, anche quando nessuno ha obbligato l’Italia a candidarsi per ospitare o per fare questo o quello, sottolinea Bruno Discepolo su Il Mattino del 2 novembre 2017 alle pagine 1 e 47

Si tratta di una questione ricorrente, che rilancia un interrogativo più generale: per poter garantire l’effettuazione di lavori pubblici, in Italia, con tempistiche normali per qualunque altro paese dell’emisfero occidentale (non essendo in discussione quello orientale, dove le realizzazioni si misura no in giorni e mesi, non in lustri e decenni) è scontato che si debba ricorrere per forza a procedure derogatorie, misure straordinarie, poteri speciali?

Sottintendendo, in tal modo, che tutto ciò che non rientra nell’elenco delle manifestazioni o degli eventi o calamità, sia destinato, in un regime ordinario che evidentemente si ritiene incapace di assicurare risultati apprezzabili e controllabili, nel migliore dei casi ad essere concluso in ritardo, nel peggiore a non vedere mai la luce?

Questa è l’amara conclusione cui si perviene analizzando lucidamente quanto accaduto in Italia nell’ultimo mezzo secolo, una storia di avvenimenti vissuti sempre all’interno di questa logica perversa, di un doppio binario, di un’appartenenza alternativamente a una condizione normale, come tale relegata in partenza verso un esito fallimentare, ovvero speciale, e dunque candidata al successo.

In un Paese normale verrebbe subito da domandarsi se non sia il caso, avendo registrato rigidità del sistema, criticità evidenti nell’impianto normativo e nei procedimenti amministrativi, provare a modificare le regole, per fare in modo che tutte le opere, non solo quelle prescelte come eccezionali, possano essere concluse nei tempi e modi previsti, apportando correttivi e adeguando culture e comportamenti, segnatamente quelli di una burocrazia incline all’autoreferenzialità.

Naturalmente, in Italia, nessuno ha pensato che questa fosse la strada maestra, e nella generale bulimia legislativa si è continuato, se possibile, a normare, regolamentare, disciplinare e così via discorrendo. Non solo non si è mai messo mano alla tanto sbandierata operazione di delegificazione, riducendo le decine di migliaia di leggi ad entità equivalenti a quelle dei maggiori paesi europei, ma soprattutto si è continuato a perseverare con strumenti e dispositivi, a volte cervellotici, che sembrano essere stati partoriti per un solo scopo, vale a dire impedire che un’opera venga realizzata.

Il risultato è che oggi, in Italia, per decidere, programmare, progettare, realizzare e collaudare un’opera pubblica occorrono, relativamente al grado di complessità, dai tre ai cinque anni se non si registrano impedimenti esterni. Se poi, come capita nella stragrande maggioranza dei casi, intervengono ricorsi giudiziari, allora il traguardo dei dieci anni è davvero a portata di mano.

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