Corruzione tra privati estesa a tutti i manager

Nella categoria Azione di governo da su 12 maggio 2017 0 Commenti

 Il 14 aprile è entrato in vigore il decreto legislativo 38 del 2017, completando, così, l’attuazione delle regole UE. L’aspetto più rilevante appare quello della estensione a tutti i livelli di management – anche se non hanno incarichi di amministrazione e controllo – della responsabilità di «corruzione tra privati», punibile con la semplice offerta di denaro – non servirà la consegna o la promessa di denaro o beni – e a prescindere dalla prova che abbia danneggiato la società.

Come era facilmente prevedibile, la norma attuale non ha funzionato, come testimoniano i limitatissimi casi giunti all’esame delle Procure: la novella dell’art. 2635 codice civile operato dalla cd. legge Severino – con gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili sociali, i sindaci e i liquidatori che venivano puniti con la reclusione da uno a tre anni, quando, dietro dazione o promessa di denaro o altra utilità, compivano o omettevano atti in violazione degli obblighi inerenti il loro ufficio o degli obblighi di fedeltà e con una punibilità attenuata a un anno e sei mesi se il fatto era commesso da persone sottoposte alla loro direzione o alla loro vigilanza, con la previsione anche della ipotesi “attiva” di chi dava o prometteva denaro o altra utilità – prevedeva la perseguibilità a querela, salvo che dal fatto non derivasse una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi.

Il rapporto 2016 del GRECO, il Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa, aveva confermato il precedente giudizio di inadempienza rispetto alle previsioni di contrasto della particolare fenomenologia criminale.

Il decreto – in attuazione della legge delega 170 del 2016 – dovrebbe, così, completare, dopo 14 anni, il recepimento della decisione quadro 2003/568/Gai che aveva imposto agli Stati europei di prevedere come reato il mercimonio delle attività private connotate da violazioni di doveri e capaci di provocare danni all’economia e distorsioni alla concorrenza.

In estrema sintesi, il nuovo testo rende più ampie e incisive le possibilità di intervento repressivo delle condotte di corruzione tra privati, precisando che il vantaggio (denaro o altra utilità), da conseguire in cambio della violazione degli obblighi di ufficio o di fedeltà, deve essere «non dovuto», mentre tra le condotte incriminate si inserisce anche la sollecitazione da parte del soggetto tenuto alla fedeltà.

Altro aspetto di rilievo appare quello della soppressione del riferimento al «nocumento alla società», con il reato che è, quindi, punibile a prescindere dalla prova che si sia verificato un evento dannoso per la società a seguito del comportamento illecito, atteso che diventa sufficiente la mera sollecitazione, ricezione o accettazione della promessa di denaro o altra utilità, anche in un momento precedente rispetto a quello in cui si pone in essere l’atto l’omissione che viola gli obblighi.

Altrettanto interessante appare l’estensione dell’ambito di applicazione della corruzione passiva, con il soggetto estraneo alla società o all’ente che diventa punibile anche se si limita a fare un’offerta indebita di denaro o altra utilità, anche attraverso un intermediario o persona interposta (a sua volta punibile per lo stesso reato, per aver offerto un contributo consapevole alla realizzazione dell’illecito).

In tema di aspetti sanzionatori, merita ricordare come:

  • tra le pene accessorie rimane l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle società per vertici societari condannati per il reato di corruzione tra privati, a prescindere dall’entità della pena – attraverso una riformulazione dell’articolo 2035 ter codice civile, in deroga al limite minimo di sei mesi di reclusione – se hanno già avuto una condanna per lo stesso reato o per quello di istigazione alla corruzione;
  • sono aumentate – attraverso una riformulazione dell’articolo 25-ter del decreto legislativo 231/2001 – le sanzioni pecuniarie a carico della società nei casi corruzione attiva e sono introdotte sanzioni pecuniarie peri casi di istigazione alla

 Si tratta, quindi, di una riforma che pone il nostro Paese in linea con i migliori standard internazionali, ma che non risolve la situazione. Anzi, è facile prevedere che gli effetti concreti saranno molto modesti, e del tutto diversi da quelli – primo tra tutti quello della riduzione del tasso di corruzione – che il Legislatore sembra essersi prefisso.

La prima conseguenza per le imprese sarà la necessità di modificare i modelli organizzativi 231 per evitare che le conseguenze del reato commesso da un proprio dirigente ricadano anche sulla società. Questo significa pagare un consulente per attuare correzioni che hanno l’obiettivo di dimostrare, in caso di contenzioso, che la società ha fatto tutto il possibile per evitare l’insorgere di fenomeni corruttivi. Nella maggior parte dei casi sono proponimenti che rimangono solo sulla carta, al più si tratterà di organizzare qualche corso per dirigenti sulla 231, giusto per dare contezza di aver fatto qualcosa.

Qualcuno, magari, si porrà il problema di modificare le polizze assicurative per adeguarle a un innalzato livello di pericolosità. Le aziende più strutturate e più diligenti arriveranno a elaborare un disciplinare che precisi quali sono le promesse indebite: una cena in un ristorante stellato o un televisore ultrapiatto o una vacanza esotica? Senza una precisa indicazione di quale sia il valore minimo degli omaggi accettabile senza incorrere in rischi penali, si crea una zona di incertezza che non ferma la corruzione ma facilita la strumentalizzazione di queste norme.

Las probabilità che si finisca in adempimenti meramente formali che non faranno certo da incentivo alla moralizzazione delle realtà commerciali, è estremamente significativa.

È rimasto, poi, inalterato il requisito della querela di parte. In pratica dovrebbe essere l’azienda a denunciare il proprio dirigente, con il rischio dei danni reputazionali che le potrebbero ricadere addosso: più facile che la minaccia di una denuncia venga utilizzata nelle lotte interne alle stesse società. Potrebbe, per esempio, diventare uno strumento semplice ed efficace per allontanare un manager sgradito. Anche perché, mentre con le vecchie norme era necessario provare il danno alla società, ora questo requisito è stato cancellato e sarà sufficiente provare l’accordo o il tentativo di accordo per far condannare il dirigente infedele. Di fatto il legislatore, con anni di ritardo e solo dietro la minaccia dell’ennesima infrazione comunitaria, si è trovato costretto ad approvare delle norme che, nella migliore delle ipotesi, potranno avere un valore meramente simbolico, ma non riusciranno certamente ad essere un’arma efficace contro il malaffare societario.

Sembra, piuttosto, di essere di fronte all’ennesimo esempio di scollamento tra un legislatore sempre più eterodiretto da organismi e istituzioni europei o addirittura di livello mondiale (che hanno come punto di riferimento le società di grandi dimensioni) e una realtà, fatta soprattutto di piccole e medie imprese, sulla quale la riforma non può produrre l’effetto moralizzatore, mentre è più probabile che produca effetti secondari non previsti.

Oltre all’ennesimo appesantimento burocratico ai danni delle imprese.

L’articolo – I manager corrotti alla sbarra. Infedeltà societaria, punibile non solo l’amministratore, di A.C. Messina, su ItaliaOggi del 14 marzo 2017 – è consultabile all’indirizzo:

http://www.italiaoggi.it/giornali/preview_giornali.asp?id=2163102&codiciTestate=&sez=hgiornali

Un commento è consultabile all’indirizzo:

http://iusletter.com/societa-associazioni-stretta-anti-corruzione-sui-manager/

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