Corte dei Conti e peculato

Nella categoria Analisi e Ricerche da su 25 novembre 2016 1 Commento

Corte dei Conti e peculato. Un’analisi del fenomeno dal 2010 al 2015 attraverso le citazioni a giudizio e le condanne riepilogate nelle appendici alle Relazioni estese dai Procuratori Generali pro-tempore della Corte dei Conti in occasione delle cerimonie di inaugurazione degli Anni Giudiziari.

A cura del Colonnello Mauro Pulcini

“Fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus aetatem agunt, fures publici in auro atque in purpura”.
Sono trascorsi oltre duemila anni da quando, secondo Aulo Gellio (citato in Notti attiche XI, 18, 18), Marco Porcio Catone declamò tale frase davanti al Senato romano. Eppure, non appena tradotta, la antica formulazione sorprende per i contenuti di stringente attualità, quasi fosse stata pronunciata ai giorni nostri: I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori”.

  Le cronache giudiziarie degli ultimi decenni, infatti, evidenziano impietosamente come gli episodi di malamministrazione – declinati nelle differenti forme della corruzione, della concussione, dell’abuso d’ufficio e del peculato – siano ancora fortemente presenti e radicati nel modo di “gestire la cosa pubblica” proprio del nostro Paese, quasi a confermarne una atavica predisposizione etica e culturale, un tratto identitario, come tale, estremamente difficile da intaccare.

  In tale contesto, uno quadro rappresentativo dell’andamento dei fenomeni di maladministration riferito agli anni più recenti può essere utilmente fornito da alcune statistiche giudiziarie e, più in particolare, dalle citazioni a giudizio e dalle condanne emesse dalla Corte dei Conti dal 2010 al 2015 in materia di danno conseguente a reati perpetrati da pubblici funzionari o incaricati di pubblici servizi conto la Pubblica Amministrazione, così come riepilogate nelle appendici alle Relazioni estese dai Procuratori Generali pro-tempore della Corte dei Conti in occasione delle cerimonie di inaugurazione di ciascuno degli Anni giudiziari riferiti allo specifico arco temporale.

  Proviamo allora, attraverso la lettura dei dati profferti dai citati documenti, a sviluppare una analisi critica con specifico riguardo ad una tipologia di reato che si ritiene meglio di altre identifichi quei “ladri di bei pubblici” cui si riferiva Catone: il peculato. L’obiettivo di fondo è quello di:
– misurare il fenomeno mediante l’impiego dei richiamati strumenti statistici;
– valutare, conseguentemente, l’efficacia della azione repressiva condotta dalla magistratura, sia essa ordinaria che contabile;
– individuare, ove ritenuto necessario, eventuali linee di azione alternative volte a contrastare più efficacemente il fenomeno in funzione dei connessi fattori abilitanti.

Giova, a premessa di ogni approfondimento, identificare la fattispecie in esame.
In base all’art. 314 del Codice Penale, commette il reato di peculato il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria indebitamente.
Le pene previste dal codice variano in funzione del grado della appropriazione. In via ordinaria, il reato in argomento è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi.
Laddove il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo tale uso, è stata immediatamente restituita, si applica invece la pena della reclusione da sei mesi a tre anni (fattispecie, quest’ultima, che identifica il c.d. peculato d’uso)[1].

  Dunque, il peculato si sostanzia in un reato di mera condotta, perpetrato da chi (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) si comporta uti dominus nei confronti del denaro o della cosa mobile posseduti in virtù dei poteri e doveri funzionali connessi con l’incarico ricoperto. Proprio la peculiare posizione del soggetto attivo identifica il peculato quale reato proprio, a soggettività qualificata, come tale distinto dal reato di appropriazione indebita[2].

  Gli elementi che concretizzano, unitamente alla richiamata soggettività qualificata, la fattispecie in esame sono, pertanto, il possesso o la disponibilità della cosa: il primo, inteso come potere di fatto sul bene esercitato in ragione della qualifica assunta; la seconda, individuata nella concreta possibilità di disporre della cosa, a prescindere dalla materiale detenzione. Altro requisito è quello dell’altruità del denaro o di altra cosa mobile, che non necessariamente devono appartenere alla P.A.[3].

  La disciplina penalistica del reato in parola è volta a tutelare, al contempo, sia l’interesse patrimoniale della P.A. (di qui la diretta competenza della Corte dei Conti) che, più in generale, i principi costituzionalmente garantiti del buon andamento e dell’imparzialità della P.A..

  Una volta inquadrata la fattispecie in argomento da un punto di vista normativo e identificati i suoi elementi costituitivi, procediamo ora ad analizzare ed interpretare i richiamati dati giudiziari (citazioni a giudizio e condanne emesse dalla Corte dei Conti in materia di danno per reato di peculato nel periodo 2010-2015), costituenti un indicatore privilegiato circa l’andamento nel tempo del fenomeno, atto a favorirne una misurazione di tipo oggettivo, ancorché con esclusivo riguardo alla sua componente emersa.

All’uopo, sono stati estrapolati dai suddetti documenti, distintamente per “citazioni emesse in materia di danno per reato di peculato” e “sentenze in materia di danno per reato di peculato”, i dati di numerosità assoluta, i valori percentuali rispetto al totale delle casistiche di danno erariale conseguente a reati commessi contro la P.A. e il valore economico del danno stesso. In realtà i dati tratti dalle citate relazioni non si riferiscono al solo reato di peculato ma anche a quello di appropriazione indebita. Si ritiene peraltro, nell’impossibilità di procedere ad una ulteriore estrapolazione selettiva (e attesa in ogni caso la affinità/contiguità delle due tipologie di reato, come già evidenziata in nota 2), che tali dati forniscano comunque – seppur in prima approssimazione – utili informazioni in merito all’andamento del fenomeno nel periodo di riferimento e alla sua incidenza percentuale rispetto al resto dei delitti commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio nei confronti della P.A..
Di seguito, tabella di sintesi dei risultati dell’indagine e relative rappresentazioni grafiche.

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  L’analisi dei dati estrapolati dai citati documenti, così come riportati in tabella e illustrati graficamente, consente di evidenziare alcuni aspetti peculiari dei fenomeni di malamministrazione riconducibili al peculato trattati dalla Corte dei Conti nel periodo 2010-2015. Segnatamente:

  • le citazioni a giudizio in materia di danno erariale conseguente al reato di peculato rappresentano una quota parte significativa del totale delle citazioni relative a reati commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblici servizi contro la P.A., attestata su un valore medio pari al 23,4%; analogo discorso può essere esteso alle sentenze emesse in materia di danno conseguente al reato di peculato, la cui percentuale media sul totale è pari al 17,7%;
  • l’andamento del fenomeno nel tempo non consente – anche a voler estendere l’esame comparativo agli ultimi 10 anni, attingendo da altre fonti informative/documentali (ed esempio le banche dati disponibili sul sito della Corte dei Conti) – di identificare una chiara tendenza (in aumento o in diminuzione) nell’andamento del fenomeno, che, fatte salve le fisiologiche oscillazioni rilevabili per ciascuno degli anni esaminati, rimane sostanzialmente costante sia per quanto attiene all’incidenza percentuale rispetto agli altri reati di specie (concussione, corruzione, abuso d’ufficio) sia riguardo ai valori di danno erariale associati (ad eccezione dei dati riferiti al 2015 che, peraltro, risultando totalmente disallineati rispetto a quelli degli anni precedenti, potranno essere adeguatamente valutati e “ponderati”, in termini di rappresentatività, solo attraverso un’analisi estesa agli anni a venire), mentre fa registrare il difforme andamento delle variazioni in valori assoluti delle citazioni in giudizio rispetto a quelle riguardanti le sentenze (le prime, sensibilmente in aumento; le seconde, in lieve diminuzione).

  Al di là delle possibili ragioni sottese a tali scostamenti – che potrebbero essere meglio identificate ed interpretate attraverso una analisi del fenomeno più approfondita ed estesa temporalmente – appare evidente che la fattispecie in argomento (danno erariale conseguente al reato di peculato) non conosca, allo stato, un significativo processo di contenimento, significando che le misure repressive, adottate sia dalla Magistratura ordinaria che da quella contabile, non rappresentano, da sole, un efficace e risolutivo strumento di contrasto.

  Peraltro, gli studi condotti nell’ambito del Master Anticorruzione svolto presso l’Università Tor Vergata di Roma confermano e rafforzano tale ultima considerazione, estendendola anche agli altri reati di specie (corruzione, concussione, abuso d’ufficio) nonché, più in generale, a tutti quei comportamenti distorti (configurino o meno gli stessi ipotesi di reato) riconducibili al più ampio (e già citato) concetto di malamministrazione, che supera l’inquadramento penalistico, per ricomprendere condotte che violano sia regole giuridiche che regole etico/morali[4]. Ed è proprio con riguardo a tali ultime regole e alle misure volte a favorirne il rispetto che occorre agire per contrastare efficacemente i fenomeni di maladministration, nell’assunto che i relativi fattori abilitanti vadano ricercati nei valori etici radicati in ogni sistema organizzativo e sociale.

 L’approccio interdisciplinare e “trasversale” del richiamato corso di studi – che affronta, tra l’altro, la tematica della malamministrazione da un punto di vista giuridico-normativo, sociale, economico e antropologico – consente, infatti, di affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il contrasto ai connessi fenomeni distorsivi (tra i quali, come visto, assume una significativa rilevanza percentuale il reato di peculato) vada prioritariamente attuato attraverso interventi e misure di tipo preventivo, basati sull’azione integrata di una serie di fondamentali presidi:

  • innanzitutto, i “pilastri” rappresentati dalla trasparenza, dall’accountability e dal controllo;
  • la funzione di risk management ossia di gestione dei rischi (in particolare quelli connessi alla corruzione) attraverso l’impiego di una serie di strumenti e misure organizzative volti a rafforzare la politica di prevenzione dei comportamenti deviati (Piano Nazionale Anticorruzione, Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione, figure dei Responsabili e Referenti presso ciascuna Amministrazione, ecc.)[5].
  • l’adozione di codici etici interni;
  • la previsione di sistemi di incentivazione delle competenze e delle specializzazioni;
  • la formazione, volta a promuovere la cultura dell’etica e della legalità di risultati.

  E’ evidente che la valenza di ciascuna delle suindicate misure di prevenzione assume un diverso peso specifico a seconda della tipologia del fenomeno da contrastare. Nel caso specifico rappresentato dal reato di peculato devono, in particolare, ritenersi prioritarie le seguenti attività, precipuamente rivolte al personale cui assegnare gli incarichi/qualifiche di “pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”:

  • corretta individuazione dei meccanismi di selezione e rigorosa attuazione degli stessi in fase di designazione/nomina (avendo a riferimento non solo le precedenti esperienze professionali del citato personale ma anche il consolidato profilo etico, da verificarsi anche attraverso controlli incrociati sul tenore di vita, sulle condizioni personali, nonché sulla esistenza di pregresse condanne e/o denunce);
  • “mirata” azione informativa/formativa, volta ad assicurare che detto personale maturi la piena consapevolezza del ruolo istituzionale ricoperto e delle connesse implicazioni, anche e soprattutto di natura etico/morale.

  In ogni caso, appare opportuno evidenziare che tutte le suindicate misure di prevenzione, ed in particolare quelle connotate da un’alta valenza formativa ed etica, per essere utilmente ed efficacemente perseguite, devono rivolgersi prioritariamente agli “onesti” e non ai “disonesti”, proprio perché è sui primi che occorre intervenire, agendo direttamente sulle relative coscienze e conoscenze ed evitando che gli stessi – attraverso distorti processi di “razionalizzazione” favoriti da contesti eticamente deboli – non riescano a discriminare tra ciò che è giusto e ingiusto, corretto o scorretto, morale o immorale[6].

  In conclusione, solo attraverso il ricorso integrato a tali misure di prevenzione – le sole in grado, come accennato, di agire in maniera “strutturale” sui codici etici propri di ogni contesto sociale e organizzativo – si potranno efficacemente contrastare i fenomeni di malamministrazione, perseguendo l’obiettivo, non certamente di breve periodo (saranno in tal senso necessari ricambi generazionali), di invertire la rotta e consentire al Paese, in ciascuna delle sue espressioni istituzionali, di virare concretamente verso una nuova cultura della legalità.


[1] Accanto alla fattispecie a carattere generale, il codice penale ne identifica, altresì, una più specifica, quella costituita dal peculato mediante profitto dell’errore altrui. In base all’art. 316 del c.p., infatti, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. In tal caso, dunque, l’esercizio delle funzioni o del servizio non costituisce la ragione del possesso, ma solo un momento cronologico all’interno del quale deve concretizzarsi la condotta tipica.

[2] L’appropriazione indebita, infatti, è un reato di tipo comune riferendosi alla condotta di chiunque, per procurare a sé o ad un altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui, di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso (art. 646 c.p.). E’ evidente comunque l’affinità e contiguità tra le due fattispecie di reato. In tal senso, il peculato, proprio in virtù della specificità soggettiva che lo contraddistingue, può configurarsi come una “appropriazione indebita qualificata”.

[3] Tale portata estensiva della norma è stata introdotta dalla l. 26 aprile 1990, n. 86 (art. 20) che, di fatto, ha riunito in un’unica fattispecie le vecchie figure del peculato e della malversazione a danno di privati.

[4] Tale accezione è riferita non solo ai delitti contro la P.A. disciplinati dal codice penale ma anche a tutti quei malfunzionamenti e distorsioni dell’azione amministrativa scaturenti dall’uso ai fini privati delle funzioni pubbliche. Si passa dunque da una dimensione di stringente natura penalistica al concetto più ampio di “non integrità”, che ricomprende la violazione sia di norme che di regole etiche/morali. Dunque il parametro di riferimento rispetto al quale si può valutare la deviazione intenzionale del comportamento è costituito non solo da regole giuridiche ma anche da regole etico/morali

[5] In tal senso, la legge n. 190/2012 ha rappresentato un significativo cambio di paradigma rispetto alla precedente normativa, basandosi su un approccio di tipo preventivo nel quale assume un ruolo centrale proprio la citata funzione di risk management, attuata attraverso un articolato processo di analisi ed intervento.

[6] In tal senso, ha fornito utili elementi di riflessione e valutazione un documento esaminato nel corso del citato Master Anticorruzione. Si tratta, in particolare, di uno studio condotto da Max H. Bazerman e Ann E. Tenbrunsel (tratto dall’Harvard Business Review dell’Aprile 2011) e riguardante i comportamenti antietici. Attraverso tale lavoro sono stati identificati cinque ostacoli alla costruzione di una organizzazione etica, la cui caratteristica comune è quella di incidere proprio sulle scelte degli onesti: obiettivi mal concepiti; cecità motivata (ignoriamo volutamente il comportamento antietico di altri); cecità indiretta (responsabilizzare meno gli altri quando il comportamento antietico viene attuato da soggetti terzi); china scivolosa (sviluppo lento e graduale del comportamento antietico); sopravvalutazione dei risultati (comportamento antietico tollerato se porta a risultati positivi).

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Commenti (1)

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  1. avatar Giovanni scrive:

    ho sempre pensato che le Universita’ sono i motori della Repubblica.
    Il pregio degli articoli di questo sito, l’opportunita’ che viene data a persone come il sottoscritto che commentando gli articoli puo’ esprimere i valori in cui si riconosce in una sede autorevole, rendono questo sito un apporto prezioso e concreto per la vita civile e democratica del Paese.

    Grazie

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