L’obbedienza come orizzonte di comprensione e di datità della legge
“Il diritto può sì sostenere e proteggere normativamente regole di vita e atteggiamenti etici preesistenti, ed è anche in grado, grazie alle sue norme, di mantenere fino ad un certo punto desta una coscienza etica della società, ma non può creare dal nulla, con una disposizione normativa, una coscienza etica (ancora) mancante o salvaguardare regole etiche in via di disgregazione [..]”
Queste poche frasi, tratte dal saggio La scuola storica e il problema della storicità del diritto di Bockenforde, ci permettono di formulare la seguente domanda, e cioè se – per così dire – nasca prima l’ethos o il diritto. Da quanto afferma Bockenforde, sembrerebbe che l’etica abbia un primato di nascita, in quanto le norme giuridiche debbono trovare nei loro destinatari il fondamento che le sostenga: esse non possono trovar la loro ragion d’essere solo nel fatto di presentarsi come sistema coercitivo. In sostanza, non ci sarebbero leggi – le quali dovranno essere conformi alla natura e alla consuetudine della patria- senza soggetti a cui esse sono rivolte; anzi, in maniera più radicale non ci sarebbero leggi senza soggetti morali. Questa specificazione è decisiva.
Le norme, infatti, per quanto delineate secondo giustizia, non troverebbero un terreno fertile se su di esso non ci fosse una risposta morale. Diversamente, ci troveremmo dinanzi ad una pura coercizione che non si configurerebbe mai pienamente come obbedienza. Certamente, bisogna intendere “obbedienza” nel senso di determinazione della volontà; di conseguenza, non c’è obbedienza là dove vi è imposizione: chi è costretto ad agire in un certo modo non è un obbediente, ma un costretto. Obbedienza deriva dal latino ob-audio, cioè essere in ascolto, dipendere da un ascolto. Essa si colloca – a ben vedere – nello spazio tra l’ascoltare e il persuadere. Chi disobbedisce è fondamentalmente colui che non ascolta: non dando ascolto egli non sente e quindi non può essere persuaso. Da ciò deriva quella dimensione impositiva tipica di ogni disobbedienza, cioè l’indifferenza nei confronti della parola altrui, ovvero non prendere l’altro sul serio. Ciò significa crearsi uno spazio illimitato di possibilità – spazio che in realtà è ovattato, in qualche misura -, all’interno del quale vige una legge del tutto personalizzata: si adattano le norme alla predisposizione e alla volontà del singolo. Come si può ben notare, avviene un totale rovesciamento logico.
Questa riflessione sull’obbedienza, potrebbe a primo avviso risultare avulsa dal nostro iniziale discorso circa l’ethos e il diritto. Ma, in maniera radicale, vi è un modo in cui l’obbedienza si presenta come non derogabile, come imposizione. Tale imposizione, che si configura come sistema normativo, prevede per sua natura di essere messo in vigore, senza eccezione alcuna o modifiche ad personam. Sarebbe privo di senso un sistema normativo che rimanga valido solo sul piano ideale; o meglio, sarebbe un complesso di norme vuote: per tanto il passaggio dal contenuto della norma alla sua effettiva applicazione è indispensabile. Questo presentarsi della parola nella dimensione di tassatività del divieto, non è però solo coercitivo. Di fatti, la tassatività è il limite alla tendenza – tutta umana – all’onnipotenza: pertanto, l’obbedienza si configura non soltanto come comprensione della legge, ma come un darsi stesso della legge.
In società, si è immersi in un sistema di relazioni prefigurate (si pensi ai rapporti lavorativi, rapporti pubblici quali Stato-cittadini, o anche le più embrionali relazioni famigliari) che complessivamente formano un “regime di obbedienza”. Da qui emerge l’antecedenza della legge ai soggetti. Essa è sempre data, ed è data secondo un doppio significato. In primo luogo, è data in quanto è un dato di fatto, poiché la norma “c’è”. In secondo luogo, è data nel senso che un legislatore l’ha posta. Concentriamoci sulla legge data. Essa è legge oggettiva la cui antecedenza è una necessità. Se infatti rispetto al governo del proprio desiderio si può diventare leggi a se stessi, nella relazioni con gli altri ciò è impossibile, poiché non si può essere legislatori unici, col rischio di diventare impositivi nei confronti degli altri. La teoria dei sistemi ha ben descritto la genesi della legge e il suo statuto di oggettività, ragionando in termini di aspettative che governano le relazioni. Così formulata la legge si rivela come un criterio di razionalità, che mostra ai soggetti che essi non possono tutto. L’obbligo di obbedire alla legge dipende dal fatto che senza questa oggettività si cadrebbe in una situazione di equivoco e di conflitto insanabile – che porta ad una serie di degenerazioni, tra cui la corruzione – . Ma allo stesso tempo, dinanzi alla legge si ha l’esigenza di una risposta, che non potrebbe giungere da soggetti non morali, come appare sostenere Bockenforde.
Ecco ritornati al punto di partenza del discorso: possiamo dire che diritto e ethos, sono in qualche modo coevi. Prendendo in prestito la tesi di Julien Freund: “il diritto non è per sua essenza una sostanza a parte, bensì una mediazione fra politica ed etica [..]. La politica deve svilupparsi e comunicarsi giuridicamente per essere efficace, e con ciò anche farsi determinare dal punto di vista etico; inversamente, l’etica – nella misura in cui intende essere pubblicamente efficace e intervenire nel diritto – non può spaziare liberamente in utopistici postulati etici”.
Etica e diritto sono destinati a procedere insieme.
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