Destinazione universale dei beni contro i tesaurizzatori
Parliamo di “beni comuni”. Non è un tema così ovvio come potrebbe sembrare, e non perché non si sappia di cosa si tratti, quanto piuttosto perché si è quasi persa l’abitudine a ragionarci sopra. Eppure, persino la chiesa cattolica ne offre una definizione, dalla quale, a prescindere dall’orientamento religioso di ciascuno, è utile partire. Questa la definizione di “bene comune” proposta dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa:
“Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale.”
Risalta, per prima, la concretezza del concetto di bene comune: esso non rappresenta un’entità ideale a cui progressivamente avvicinarsi, come fosse un ideale regolativo. Nel punto di vista della chiesa, è invece un bene che nasce e si accresce dal senso di comunità, per questo ha tutte le caratterizzazioni di un bene effettivo. Malgrado questi nobili principi, molto spesso si tende ad attuare il concetto inverso: l’accumulazione di beni destinati al proprio beneficio individuale, in quel che è un uso privato della ricchezza. Colui che si distacca da una visione di un bene inteso in senso comunitario assume le sembianze di un Sisifo, impegnato in uno sforzo di accumulazione incessante che oltrepassa i limiti del buon senso. Tale sforzo spinge il soggetto a sovvertire il sistema pur di raggiungere una fetta sempre maggiore di patrimoni; o qualora fosse necessario si adopera per mettere in atto strategie non contemplate dalla legge. Ma la corruzione non ha alcun freno, anzi aumenta di potenza quanto più si tiene vivo il desiderio di accumulare (che per giustificarsi assume le illusorie vesti del bisogno). In tal modo, si giunge ad una deriva dove vengono meno la dignità, l’uguaglianza e l’unità: viene dunque meno il bene comune.
Nel brano citato dal “Compendio” si afferma invece il principio inverso. E cioè che accumulare beni non paga: essi sono a disposizione del singolo, ma in vista dello sviluppo dell’intera società. Un bene immediato, infatti, ha vita breve, dal momento che non si può propriamente parlare di “bene” prescindendo dalla dimensione “per” e “con” gli altri. Inoltre, precisa il Compendio, “la responsabilità di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica. Lo Stato, infatti, deve garantire coesione, unitarietà e organizzazione alla società civile di cui è espressione, in modo che il bene comune possa essere conseguito con il contributo di tutti i cittadini. L’uomo singolo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di rendere accessibili alle persone i beni necessari — materiali, culturali, morali, spirituali — per condurre una vita veramente umana. Il fine della vita sociale è il bene comune storicamente realizzabile”.
Il presupposto di tutta l’argomentazione è da rinvenirsi nella destinazione universale dei beni: destinazione ed uso universale non significano che tutto sia a disposizione di ognuno o di tutti, e neppure che la stessa cosa serva o appartenga ad ognuno o a tutti. Ma, se è vero che tutti nascono con il diritto all’uso dei beni, ecco allora che per assicurarne un esercizio equo e ordinato sono necessari interventi opportuni, frutto di accordi nazionali e internazionali, ed un ordinamento giuridico adeguato.
In una comunità protesa alla costruzione del bene comune, non può esservi un Sisifo, un tesaurizzatore, che tenga i suoi beni inoperosi.
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