Moral man and immoral society
L’idea che l’uomo fosse scisso in mente e corpo ha attraversato tutto il pensiero moderno a partire da Cartesio, sino ad arrivare ai più recenti studi scientifici. In maniera più radicale, questo presunto dualismo si è allargato anche al piano delle azioni e della coscienza, o per meglio dire, ha influenzato quella tesi secondo cui è possibile che il muovente sia di natura diversa dall’azione finale. Cioè, il più delle volte, ciò che muove l’uomo a scegliere un determinato comportamento da attuare, si mostra alla fine più o meno adeguato alla morale corrente, più o meno corretto. Di conseguenza, ciò non riguarda solo la sfera personale, bensì sfocia anche sul piano politico-sociale.
E’ davvero possibile che l’uomo scelga il meglio nella propria sfera personale, puramente privata e acconsenta a qualunque cosa che riguardi la sfera sociale?
Lo studioso americano di filosofia delle religioni, Reinhold Niebuhr, propone esattamente questa tesi attraverso la formula moral man and immoral society. Tutto questo è evidentemente il culmine delle teorie individualiste e soggettivistiche tipiche del secolo scorso, e probabilmente anche del nostro secolo. Quando il bene personale è anteposto a quello della comunità e della società, allora forse non è in realtà una società totalmente giusta. Il bene in sé non è autonomo dalla vita: solo partecipando alla realtà partecipiamo al bene. Per tanto, non che prima la persona e poi l’opera siano buone, bensì solo ambedue insieme vanno viste come buone o cattive, entrambe come unità radicate nella dimensione reale e storica. Diversamente, la realtà che si intende sarebbe solo un’illusione dentro la quale molto spesso ci nascondiamo. Che senso avrebbe “sentirsi in pace” con se stessi cercando di soddisfare e raggiungere solo le proprie prerogative individuali?
Tuttavia, la storia e l’esperienza ci insegnano che, troppo spesso, la logica del fare qualcosa “a tutti i costi” rende l’uomo cieco.
Ora, è evidente che alla base di ogni riflessione critica sulla condotta dell’uomo all’interno della sfera pubblica, ci debba essere un riferimento alla politica e all’esercizio del potere: dunque, la sfera politica – di principio – non deve entrare in conflitto con la sfera morale. Non sono ammesse dicotomie comportamentali. Eppure, ciò che in linea teorica e preliminare ha la sua fondatezza e la sua logica, non viene declinato in azioni concrete. Da qui, prende avvio la genesi del meccanismo della corruzione.
Tale non-aderenza della morale alla politica, crea come suo modello negativo il “moralista politico” – espressione che prendiamo in prestito dalla riflessione kantiana – : egli servendosi degli strumenti che gli sono messi a disposizione, articola una serie di dinamiche che hanno come unica finalità il raggiungimento di utilità personali. E’ palesemente un abuso di potere. In questo meccanismo, privo di una logica oggettivamente da tutti condivisa, si ha un’assoluta assenza di limiti: anzi, proprio in virtù del ruolo che si occupa nella gerarchia pubblica, ci si sente legittimati a commettere qualche “leggera forzatura del sistema” (come spesso viene semplificato l’atto illecito). Urge dunque, che tali limiti siano messi in atto, che la stessa regolamentazione giuridica sia da prendere sul serio: gli argini sono bene delineati dalla legge.
Solo in tal modo, il moralista politico può essere sostituito da un “politico morale”, avente un più alto profilo etico che gli permetterà di agire guidato unicamente dalla prudenza politica.
Cambiare segno al sistema è possibile, sebbene la difficoltà che si incontra nel provarci possa far sembrare il tutto un’impresa priva di successo – tanto da doverci arrendere al fatto che la “leggera forzatura del sistema” abbia la meglio -.