Economia delle devianze, una riflessione riguardo gli aspetti criminologici del fenomeno corruttivo. A cura della Dr.ssa Greta Shullazi, discente e tutor del Master Anticorruzione, Terza Edizione.
Sull’entità del fenomeno della corruzione nel nostro Paese molti hanno scritto, commentato, dibattuto e polemizzato. Alcuni addirittura sono giunti a fornire grandezze economiche alla misura del malaffare, indicando cifre più allarmanti e di certo molto rilevanti in termini macro-economici. Eppure sono ben chiari i principi dell’ordinamento – tradotti in norme costituzionali[1] – che individuano l’etica pubblica come «l’agire (…) da parte di ogni pubblico agente nell’esercizio delle funzioni che gli sono affidate, con disciplina ed onore, con imparzialità nei confronti del pubblico e attraverso un’azione che nel suo complesso si pone a servizio esclusivo della Nazione, cioè della collettività medesima»[2]. Si tratta di principi che fanno della corruzione, come tradizionalmente intesa in ambito penalistico, uno soltanto dei comportamenti che confliggono con l’etica pubblica.
Tanto è vero che, a fianco di questa tradizionale definizione, va affermandosi una sua diversa qualificazione capace di ricomprendere anche le condotte di malcostume politico e amministrativo, incorporando dunque il concetto di integrità, accolto tanto dalla dottrina che da tempo è impegnata sul tema, quanto dai contesti internazionali nei quali anche l’Italia lavora.
A fronte di tecniche sempre più sofisticate e transnazionali di reinvestimento di disponibilità di origine criminale, la reazione degli ordinamenti si è sviluppata sia sul piano della repressione penale, sia attraverso il potenziamento dell’apparato di prevenzione, fondato sulla collaborazione tra Autorità pubbliche e operatori.
Una peculiarità della nuova criminalità economica ed amministrativa per certi versi rimasta più in ombra, almeno al di là della cerchia degli addetti ai lavori è la “circolarità” dei crimini economici ed amministrativi. Parlo del fatto che i reati economici, soprattutto quando sono commessi attraverso lo strumento societario, non stanno quasi mai “da soli”, ma fanno invece parte di più o meno complesse sequenze criminali che li legano tra di loro in un nesso quasi necessario ed obbligato.
Sino ad oggi questa circolarità è stata quasi sempre esplorata a senso unico, seguendo una certa direzione, unpercorso che potremmo chiamare “classico”[3]. Il percorso classico è quello che partendo dall’accertamento di alcuni reati; il falso in bilancio, le violazioni tributarie penalmente rilevanti , la bancarotta fraudolenta, mira a condurre alla scoperta di fatti di corruzione e di riciclaggio.
Oggi, assume particolare rilievo anche il percorso inverso che dall’accertamento di una ipotesi di riciclaggio oppure dall’individuazione di una seria ipotesi di autoriciclaggio punta a risalire a ritroso ad una serie di reati economici e contro la pubblica amministrazione che costituiscono i reati presupposto o i reati provvista delle operazioni di riciclaggio.
In altre parole, la criminalità economica è una realtà che troppo spesso sfugge al controllo sociale, poiché è costituita da comportamenti non percepiti come devianti dalla collettività. L’opinione pubblica, infatti, ha difficoltà a riconoscere le manifestazioni sintomatiche di reati contro l’economia prima che si verifichi un impatto grave e devastante (bancarotta, fallimenti programmati, indebitamento a usura, violazione delle regole per la sicurezza sul lavoro, evasione fiscale e contributiva, sottrazione di patrimonio aziendale).
A ciò si aggiunga che, durante una crisi economica, la criminalità che si annida e prospera in tale settore diviene ancora più significativa. La criminalità economica, infatti, è fortemente influenzata dall’andamento della congiuntura; nei periodi di stagnazione e di recessione essa si rafforza e si espande, approfittando dei fattori aggiuntivi di vulnerabilità che la crisi finanziaria genera sulle imprese[4].
Arrivando a tempi più recenti, lo strutturarsi della criminalità organizzata come impresa e il suo inserimento non solo nei mercati illegali, ma anche in quelli legali, come soggetto attivo, e quindi politico, ha prodotto un aumento esponenziale delle attività di riciclaggio e di corruzione, con una più stretta contiguità con le strutture economico-finanziarie e politico-amministrative della società civile.
In particolare, la corruzione di appartenenti agli apparati dello Stato ha subito una spinta propulsiva con l’aumento della produzione normativa e l’intensificarsi dei controlli formali. Con l’eccesso di burocratizzazione si innesca un meccanismo perverso, secondo il quale maggiore è l’ingerenza e il controllo dello stato e più numerose sono le possibilità di corruzione.
I fenomeni corruttivi, quindi, costituiscono un momento fisiologico e costante dei rapporti fra potere politico, organizzazioni criminali e white collar criminality[5], tanto che si sottolinea l’esistenza di una “cultura della corruzione” che ormai caratterizza la gestione degli affari in tutti i Paesi.
[1] V. Cerulli Irelli, Etica pubblica e disciplina delle funzioni amministrative, in F. Merloni, R. Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della nazione, Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, 2009.
[2]V. già D. F. Thompson, Paradoxes of Government Ethics, in Public Administration Review, 1992, p. 259 ss.
[3] Incontro “Corruzione: un problema culturale?”, in occasione della presentazione del n. 2/2012 di Italianieuropei.
[4] M. Fiasco, Guida alla prevenzione della criminalità economica. Tutelare il valore dell’azienda, Roma, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma, 2012.
[5] Cfr. anche, al riguardo, l’interessante saggio di M. Levi, The media construction of financial white collar crimes, «British Journal of Criminology», 46, 2006, 1037 ss.