L’uomo, misura di tutte le cose
“L’uomo è misura di tutte le cose”, affermava Protagora[1]. E’ evidente quanto in questa espressione sia posto in primo piano l’uomo, con tutta la sua sapienza e quelle capacità tali che lo contraddistinguono da ogni altro essere vivente. Senza dubbio, a lui spetta una posizione privilegiata: ha la possibilità di modificare la natura che lo circonda, assoggettandola ai propri bisogni. Viene però spontaneo domandarsi, quanto questi bisogni incidano sui comportamenti e quanto peso rivestano nelle scelte del singolo. In altri termini, c’è il rischio che l’uomo renda le sue prerogative paradigma non solo personale, bensì accampando pretese universali?
Partiamo da un presupposto evidente, e cioè che l’uomo non agisce mai in un contesto in cui si trova da solo, ma è sempre in rapporto con gli altri. David Miller[2] distingue tre forme fondamentali di tale relazione: la comunità solidaristica, l’associazione strumentale e la cittadinanza. Soffermiamoci sulla prima. Una comunità solidaristica ha luogo fra uomini, i quali come membri di un gruppo stabile dotato di un ethos comune, hanno un’identità comune. Essa è la forma originaria della comunità in tutte le società premoderne: ne sono esempi una comunità di villaggio, o nella società moderna, la famiglia. La rappresentazione della giustizia, in una comunità solidaristica, è la distribuzione corrispondente ai bisogni. L’ethos della comunità stabilisce ciò che fa parte di una vita degna dell’uomo e traccia così i confini fra bisogni e meri desideri. Tuttavia, il problema che si pone è che molto spesso, tale confine non separa così nettamente, un reale bisogno da un desiderio. Da qui si nasce la conflittualità: sacrificare un interesse privato in nome del bene per la comunità?
Ora, un volere puramente razionale potrebbe scegliere solamente il bene (in senso lato, ciò che in è giusto); ma il volere umano non è puramente razionale: esso, infatti, può essere affetto da inclinazioni. Proprio l’inclinazione, può contraddire l’intuizione che una determinata modalità d’azione sia praticamente necessaria. In tal modo, la necessità pratica, viene soppiantata dallo scopo dell’agente. Così, da una prospettiva di giustizia comune, si scivola in una prospettiva di giustizia privata. Di conseguenza, la formula kantiana “agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale della natura”, viene meno.
L’uomo etico, sarebbe disposto a sacrificare se stesso sull’altare dell’universalità: non c’è alcun primato del personale. L’ego si ritrae lasciando il posto al “noi” della comunità. Per tanto, la norma non è osservata con un atteggiamento penitenziale o per vile servilismo; bensì nella norma è racchiuso tutto ciò che l’ethos della rappresenta. C’è alla base una salda fede nell’apparato giuridico, non semplicemente un’assunzione passiva di esso. Infatti, il passaggio all’attuazione della norma sarebbe impossibile senza questa esigenza morale. Gioca un ruolo decisivo anche il concetto di responsabilità: prendere coscienza che si è portatori non solo del proprio destino, ma soprattutto del destino degli altri. Morale, noma, responsabilità: esse muovono l’azione dell’uomo etico.
Quanti sarebbero disposti a sacrificare se stessi sull’altare dell’universalità?
[1] Filosofo greco del secondo decennio del V secolo. E’ considerato uno dei massimi sofisti antichi. Per sofistica intendiamo quel fenomeno culturale manifestatosi ad Atene: i sofisti erano professionisti che mettevano in vendita il loro sapere. Solo successivamente furono connotati negativamente ad opera di Platone e Senofonte: essi infatti li consideravano dei mistificatori della sapienza.
[2] Filosofo britannico, allievo di Karl Popper, attualmente professore all’Università di Warwich. Si interessa di giustizia sociale e teoria politica.
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